Ho concluso da poco il percorso di specializzazione sul sostegno (TFA) a Firenze e in queste righe porto la mia testimonianza e alcune riflessioni. Tantissimi corsisti, colleghi e colleghe, hanno più volte espresso l’esigenza di denunciare pubblicamente le storture del corso, ma, una volta portato a casa il sudato pezzo di carta la tendenza è, comprensibilmente, quella della rimozione. Il TFA è del resto dai più vissuto come una cosa penosa, un sacrificio necessario, un obolo da pagare allo Stato, più che un reale momento di crescita professionale. Rimuovendo però si rischia di normalizzare. Resta invece importante raccontare, confrontarsi, arrabbiarsi, e non solo sul TFA, ma sull’intero sistema di reclutamento dei docenti in Italia, tra i più iniqui e inefficaci d’Europa, e su cosa questo può dirci sulle tendenze in atto sulla scuola. Parlerò qui del corso sulla secondaria di secondo grado, ma i ragionamenti restano in parte validi per gli altri gradi. Difficile dire se lo siano anche per i corsi promossi da altri atenei. Del resto, uno dei problemi della formazione docente è proprio la sua omogeneità del tutto formale: in realtà, essendo delegata a vari enti pubblici e privati, questa differisce molto da sede a sede, per costi, selezione in ingresso e in uscita, qualità dell’offerta formativa. Una prima stortura. Vediamo le altre.

Il TFA non è inclusivo

Partiamo col dire che il corso di Firenze ha poco a che vedere con l’inclusione. Primo perché è lo stesso corso a non essere inclusivo, secondo perché, a mio parere, si parla poco di disabilità a scuola (mancano invece completamente gli studenti non italofoni e disturbi specifici di apprendimento). Partiamo dal primo punto. Il corso prevede che le lezioni vadano seguite in presenza, salvo una piccola percentuale. Chi sfora è fuori, senza deroghe. Puoi essere malato oncologico, avere un parente disabile, avere figli, allattare, essere incinta, avere disabilità, ovviamente essere pendolare. Non importa perché le regole sono uguali per tutti. Proprio quel principio che lo stesso corso ci chiede di scardinare nelle scuole, citando a memoria don Milani, il quale ci ricorda come sia ingiusto fare parti uguali fra disuguali. Bene, è quasi banale ricordarlo, il problema è farlo. A seguire il TFA non siamo ovviamente tutti uguali. Certo, un corso per diventare docenti non è istruzione dell’obbligo e rendere obbligatoria la frequenza (specie dopo il disastro della Dad) può essere una decisione legittima e financo condivisibile. Tuttavia, si deve considerare che il corso si rivolge a persone adulte. Tutti sono già lavoratori, molti con anni di insegnamento alle spalle, che tentano così di uscire dalla precarietà; altri nel settore privato (moltissimi gli educatori) che cercano di scappare dalle grinfie delle cooperative, dalla miseria o dalla disoccupazione. Si parla quindi di educazione per adulti, che non può essere strutturata come un corso di laurea e che deve prevedere delle deroghe.Certo bisognerebbe domandarci perché in Italia ci si formi sulla professione che si sta svolgendo da anni durante il lavoro e non prima. Con la follia che ci si trovi a fare il tirocinio (non pagato) in posti di lavoro dove si lavora da anni. Precisiamo che stiamo parlando di formazione in entrata, cioè di titolo abilitante, e non di aggiornamento. Per ora lasciamo stare il nodo dolente della precarietà strutturale. Torniamo al corso e ai suoi ritmi frenetici. È dai lontani anni 2000 che è ormai usuale quantificare l’insegnamento con il sistema dei crediti, per cui ogni CFU corrisponde a tot ore di apprendimento in aula e tot di studio a casa. Qualità e finalità dell’insegnamento non importano. Se si considera che il corso del TFA consiste in 60 cfu concentrati in sette mesi, si arriva agli eccessi di 10 ore di lezione consecutive in un giorno, con appena 45 minuti di pausa. I corsisti stanno tutti in batteria, appiccicati gli uni agli altri, in aule magne sovraffollate e con aria irrespirabile. Ognuno con il suo numerino di matricola, alla catena di montaggio della formazione, dove noi siamo la merce. La durata sproporzionata delle lezioni non trova ovviamente nessun tipo di giustificazione pedagogica se non quella di rispettare il famoso decreto e quindi l’accumulo dei decreti. È uno sforzo imponente, che può pregiudicare la salute psico-fisica in alcuni casi, e controproducente ai fini della formazione dei futuri insegnanti. Le lezioni, oltre ai ritmi, non sono inclusive anche per la metodologia. Salvo rare eccezioni la maggior parte sono lezioni frontali, spesso di bassa qualità. Lezioni frontali in cui ovviamente si elencano didattiche innovative e non trasmissive. Infine, il TFA non è inclusivo per il costo. Che un corso erogato dalla università pubblica non abbia dei costi progressivi, basati sul reddito, non è degno di un paese democratico. Stiamo parlando di 2600 euro (l’università di Firenze è tra le più economiche), senza contare ovviamente il costo della trasferta e dei pernottamenti per i molti pendolari. È il solito ricatto: se vuoi lavorare devi pagare, una sorta di caporalato di Stato, una tassa che si aggiunge a quelle già pagate (24 cfu, ecc..). La formazione è un business, questo tutti i docenti lo sanno benissimo. Qui la cifra va però oltre il buon senso e pregiudica a molti l’iscrizione. Bello per un ministero che si definisce “del merito”. Il merito di avere soldi ovviamente. Tutto questo rende il corso di specializzazione l’esatto opposto dell’inclusione, creando un cortocircuito tra mezzi utilizzati e fini dichiarati che non può funzionare se non in negativo. Come giustamente diceva scherzando un collega: “questo corso ci insegna esattamente quello che non dobbiamo fare a scuola”.

Sorvegliare e dormire

Certo non è facile rendere davvero inclusivo un corso per 300 persone, ma ci si aspetterebbe almeno una certa sensibilità e una messa a critica dell’impostazione ministeriale, che invece è quasi del tutto assente. Chi gestisce il corso a tutti i livelli attua una costante infantilizzazione dei corsisti, trattati peggio che bambini. Si è arrivati al punto di dover scrivere sulla lavagna i nomi di chi usciva dall’aula per fare un lavoro di gruppo e dove ci si recava, cose che i nostri studenti ci avrebbero riso in faccia. Al paternalismo si aggiunge ovviamente l’autoritarismo, accompagnato dalla sorveglianza e al giudizio costante sui comportamenti, quella che Foucault chiamava microfisica del potere. Come dentro un panopticon, nell’aula magna non si sa mai se si può essere controllati (la presenza), e le regole sono così assurde (le consegne, i ritardi, i recuperi, le iscrizioni, la folle burocrazia del tirocinio) che non si sa mai se si è in errore o si è nel giusto, facendo sentire il corsista costantemente sotto tiro. Il controllo è esercitato in parte da un potere “impersonale” (ma ben rappresentato dalla figura “materna” della direttrice del corso) di tipo informatico, cioè da una piattaforma, sia da poliziotti-tutor (poveri lavoratori precari in realtà), e ovviamente dal corsista accanto, che, per fortuna, salvo casi di esplosione di risentimento, si fa generalmente i fatti suoi. Gli organizzatori del corso fanno appello al decreto ministeriale per giustificare il loro operato. Si rivelano però più realisti del re, finendo per essere persone che applicano procedure (banalità del male), in un paese come l’Italia in cui prima si fa la legge e poi si scarica tutte le responsabilità amministrative verso il basso, anche quando platealmente irreali, inapplicabili, in contraddizione con altre leggi. Ma si sa, lo Stato non sbaglia mai. Quello che poi si traduce in un vero e proprio dispositivo di controllo dei corpi e degli atteggiamenti è ovviamente finalizzato ad impedire “la fuga” del corsista da lezioni altrimenti insopportabili. I tutor segnano ogni tipo di assenza, anche 5 minuti, che poi deve essere recuperata tramite lavoro a casa da consegnare. Anche le pause per allattare, a guardare il regolamento, conterebbero teoricamente come assenza dall’aula. In una occasione è stato fatto un appello di tutti i nomi dei corsisti per scoprire i “furbetti” che mettono la firma e se ne vanno (veri eroi). In altre occasioni più corsisti sono stati richiamati all’ordine perché magari fuori a fumare o a mangiare il gelato. Perché, insomma, sceglievano la vita. Poi ci sono anche gli esami da sostenere, altra assurdità, dato che il tempo per studiare non esiste. L’ansia è dovuta al fatto surreale che non si può bocciare nessun esame, pena l’esclusione immediata. Questo può significare due cose: o gli esami sono una “farsa”, una formalità e quindi di fatto non hanno alcun senso e allora sarebbe auspicabile eliminarli; oppure sono veri, e in quel caso è ancora più assurdo perché se il principio stesso della valutazione è quello di imparare dai propri errori, allora l’appello unico contraddice immediatamente tale principio. Tanto è vero che i feedback degli esami non esistono, (altra assurdità): i voti sono comunicati soltanto alla fine del corso, con buona pace della valutazione trasparente e tempestiva che viene sbandierata. È evidente che gli esami servono soltanto a giocarsi il punteggio di uscita, utile poi ai fini degli inserimenti nelle GPS, ma la spada di Damocle della bocciatura, del fallimento, e soprattutto dello sforare il limite di assenze, pende su ogni corsista generando ansia generalizzata. È ovviamente tutto un teatro. Di fatto, salvo abbandono, basta mettere il culo su quelle sedie per arrivare a prendere il titolo. Ma il potere funziona finché noi gli diamo importanza e crediamo all’inganno. Di fatto, l’insubordinazione è passata da meccanismi di rifiuto individuali. Chi dormiva in terra, chi scappava in altre aule, chi guardava serie netflix con le cuffie, chi firmava e scappava, chi ha messo la firma per altri, ecc. In alcuni casi si sono sollevate voci critiche collettive, che avanzavano vere e proprie richieste, ma su questioni specifiche legate alle inefficienze organizzative o agli arbitri (ad esempio la richiesta di anonimato nei test di valutazione del corso).L’invito per i corsisti del prossimo anno è quello di organizzarsi fin da subito con dei rappresentanti. Anche quest’anno siamo riusciti infine ad eleggerne alcuni, sulla spinta delle mobilitazioni contro la cancellazione dell’articolo 59 (cioè per l’accesso al ruolo da prima fascia), creando uno spazio di confronto fondamentale. Ma questi non sono mai stati riconosciuti dalla dirigente del corso, se bene, in alcuni casi, si sia trovata costretta ad interloquirci.

Non ho tempo per studiare, devo fare gli esami

Il fordismo cognitivo cui sono sottoposti i corsisti non consente di approfondire nulla ma solo di ingurgitare stupide slide in pillole per superare test nozionistici.Sia chiaro che qualsiasi contenuto, anche il più interessante, è quasi impossibile da recepire all’interno di questa struttura. È noto che la curva di attenzione cala sensibilmente dopo poco (come si insegna al TFA), figuriamoci magari dopo cinque ore di lavoro a scuola. Quanto sarebbe meglio poter studiare dei testi veri, magari fatti da persone davvero competenti sulla letteratura aggiornata? Si arriva così al paradosso di non poter studiare, magari la letteratura sul caso che stiamo seguendo davvero a scuola, perché si devono seguire i corsi e leggere le slide per gli esami. Arriviamo così all’altro punto, quello dei contenuti. Dal mio punto di vista, a mancare in quello che è un corso che dovrebbe formare i futuri docenti di sostegno, è proprio la didattica speciale. Siamo arrivati al paradosso, che, dato il mantra che il docente di sostegno (giustamente) non è assegnato allo studente disabile ma alla classe, non importa che conosca la didattica speciale (ad esempio, per capirci, i metodi TEACH e ABA per l’autismo) perché questo rischierebbe di favorire la separazione. Certo che il docente specializzato deve conoscere tecniche di didattica inclusiva rivolta a tutti (come strutturare bene un cooperative learning ad esempio) ma questo non significa ignorare le tecniche per lavorare con le disabilità o il funzionamento delle persone con disabilità. Si vorrebbe rendere il docente di sostegno un super docente che pensa a tutto, un esperto di didattica e di progettazione collegiale, quando nella realtà non sappiamo neanche lavorare con i nostri studenti disabili. Inoltre, la struttura della scuola secondaria rende di fatto impossibile una reale collegialità come nella scuola primaria. Si è strutturato, cioè, un corso su una scuola ideale piuttosto che su quella reale. Senza contare che i docenti, magari pluri laureati, agognano ad acquisire risorse pratiche, strumenti, vogliono sperimentare soluzioni, parlare della realtà di aula, non confrontarsi solo con la letteratura teorica, che pure certo è fondamentale ma ha poco a che fare con un corso di formazione docenti per una scuola di massa. Anche perché, sotto il profilo teorico, i corsi sono di bassissima qualità, tranne rare eccezioni. Molti docenti non sono preparati e ripetono banalità in didattichese. Che ad esempio è importante guardare tutti gli studenti e non parlare solo ai più bravi, che non si devono dare punizioni disciplinari ad un ragazzo oppositivo, che il peer tutoring è utile anche per il tutor, che si deve semplificare gli insegnamenti per nuclei essenziali in caso disabilità intellettive. Insomma, il buon senso. Come giustamente faceva notare qualcuno, questo buon senso non può però essere dato per scontato ad oggi nella scuola italiana, ed a volte è giusto ribadire l’ovvio. Può darsi. Forse mi sbagliavo a cercare delle soluzioni, per così dire, tecniche. L’unica cosa che ho capito dal Tfa, intendendo con questo il sempre proficuo confronto con i colleghi più che gli insegnamenti, è che non esistono ricette precostitituite del tipo disabilità X, allora didattica Y. Perché il disabile è una persona unica inserita in un contesto unico. In questo senso torna utile ripensare l’insegnamento come qualcosa di creativo più che di tecnico-applicativo. Tuttavia, non possiamo neppure accontentarci del piano etico per cui l’inclusività e giusta e il disabile è educabile. Fatto, quest’ultimo, che appare banale ma non lo è, data la diffusione di logiche assistenziali e infantilizzanti per cui allo studente disabile “basta volergli bene”. E allora è giusto confrontarsi con cosa funziona e cosa no nell’educazione per studenti autistici, con sindrome di down ecc. Tutte cose che, di fatto, mancano al corso del TFA. Questo è un altro paradosso, dato che una dei paradigmi portato avanti da chi dirige il corso è proprio quello dell’EBE, cioè dell’evidence based education. A parte citare l’esistenza di questo approccio, non si sono forniti strumenti A fianco a questo, l’altro costrutto teorico, che ha molte più ricadute pratiche, è quello delle competenze, presentato come la novità in grado di contrastare la vecchia scuola gentiliana del sapere nozionistico e trasmissivo. Non è qui il caso di soffermarci su discutere di questi costrutti, il primo che rischia di cadere nello scientismo-positivismo e il secondo nell’aziendalismo. È utile però sottolineare il fatto che il corso del TFA vorrebbe situarsi nel campo dell’ammodernamento educativo proposto dalle think thank neo liberali, le stesse che in qualche modo influenzano i governi europei. In questo senso, premesso che sia le competenze che l’EBE non sono elementi da scartare aprioristicamente e in maniera ideologica ma sono elementi da discutere seriamente tra il corpo docente, il corso del TFA non propone nessun elemento di critica ma si pone nell’orizzonte della politica scolastica governativa.

Cui prodest?

E quindi in ultima istanza perché sottoporre gli aspiranti docenti di sostegno a questa kafkiano logoramento? 

In prima istanza perché, lo si è detto, la formazione docenti è un buon affare, e noi siamo la merce da spremere. Le università, sempre più de finanziate dall’alto si finanziano così, fino a quando perlomeno, sta accadendo proprio ora, il governo non decida di dirottare questa ricca torta verso enti privati, magari degli amici. Il tfa tiene in piedi un baraccone che, in ultima istanza, rappresenta posti di lavoro e posizioni accademiche da mantenere. 

Ma allora perché il controllo? Non basterebbe l’equazione pago ottengo il titolo?

Il fatto è che, a mio modesto parere, il TFA concentri in sé molti mali della scuola italiana, e più in generale della scuola nell’età del realismo capitalista (Fischer 2009). In questo senso quanto avviene in un corso di formazione docenti la può dire lunga sulla scuola di oggi, o cosa questa ci si aspetti che dovrebbe diventare, e delle tendenze che sono già in atto.

In primo luogo, l’autoritarismo, il controllo, il disciplinamento, che può andare tranquillamente a braccetto con didattica di bassa qualità e financo con bassa selezione. Come al TFA, che ha una percentuale di promossi del 100% ma non per questo è meno autoritario.  La scuola non è solo trasmissione di contenuti ma formazione di soggettività. E questa scuola per insegnanti forma il docente asservito, docile, ligio alle regole, spaventato, però allo stesso tempo smart e sempre sorridente, ovviamente pronto a lavorare sotto stress e familiarizzato con la tecno-burocrazia.

A cascata sono questi gli atteggiamenti che poi andremo ad insegnare ai nostri studenti? 

Questa è una descrizione in parte grottesca ed esagerata. Tuttavia, ho visto docenti piangere perché non risultava inserito il tale foglio per il tirocinio. Questa non è scuola, ma didattica dell’obbedienza.  

In secondo luogo, la valutazione. 

Il TFA è ossessionato dalla valutazione, valutare gli esami, il tirocinio, e poi autovalutazione, valutazione sul corso e su ogni singolo insegnamento. Si valuta e si è valutati. Molti corsisti non erano interessati a farlo. E invece no, valutare non è un diritto ma un obbligo, pena la solita esclusione. E così, a forza di test INVALSI, anche nelle nostre scuole insegnare vuol sempre più dire valutare, con tutto quello che questo comporta anche in termini di benessere psicologico degli studenti, e in metodologie: studiare per passare un test è ben diverso da approfondire una materia di studio. Così finisce che ci si prepara a studiare come funzionano i test invalsi piuttosto che la letteratura. 

Infine, la burocrazia, una delle cifre del tardo capitalismo. Ogni docente sa quanto tempo viene speso in compilare fogli e burocrazia piuttosto che in didattica. Una burocrazia scolastica fatta di target, obiettivi, relazioni da scrivere e quindi molto legata alla valutazione di cui sopra. Una burocrazia decentralizzata che diventa anche valutazione su sé stessi e quindi autosorveglianza e prestazione. Alla verifica della qualità dell’istruzione, sono ormai legati anche i finanziamenti. Ma qualità secondo quali parametri? 

A mio parere, e qui sta anche la critica al sistema di valutazione delle competenze definita come “operazionalizzazione” sponsorizzata dal TFA, non tutto può essere quantificato. Il pensiero critico degli studenti non può essere ridotto a quantità e non si presta ad evidenze. Semplicemente si sente, si percepisce nel rapporto didattico tra docente e allievo. 

La scuola della burocrazia è quella scuola in cui si mette più impegno nel rappresentare le cose in un certo modo (si pensi alla stesura del PEI, spesso vera e propria rappresentazione immaginifica dell’inclusione) che nel migliorare effettivamente le cose. 

In generale questa è la tendenza della scuola nella civiltà della tecnica. La tecnica, cioè lo strumento utile per soddisfare i fini umani, da mezzo diventa fine. In questo senso la burocrazia si autoalimenta, la scuola diventa un apparato burocratico, senza che si sappia più cosa insegnare e perché. 

IL TFA è stata l’apoteosi di questa sclerosi burocratica. Nel tirocinio, ad esempio, non importava cosa davvero avessimo fatto ma i fogli, le firme, avere il giusto tutor, il giusto timbro (tondo non quadrato mi raccomando), caricare i documenti in tempo, scrivere le relazioni, barrare le crocette. Tutte cose che ovviamente non servono a niente e che nessuno mai leggerà, ma che hanno il solo scopo di riprodurre il sistema stesso. Così anche il TFA rischia di essere lo specchio di una scuola simile a quelle facciate finte che mettiamo davanti a edifici in ristrutturazione. Tutto sembra in ordine, ma sotto ci sono le macerie.

Formazione all’italiana

C’è un però. E cioè che siamo in Italia, dove ogni governo cambia le regole e nulla funziona davvero, e poi il paese delle corporazioni e dei conservatorismi. In questo senso credo che neanche la nostra classe dirigente, principalmente per incompetenza e assenza di idee, sappia davvero che farne della scuola. Per loro è piuttosto un indice di spesa, ben che vada un ufficio di collocamento dei giovani. Figuriamoci della disabilità. Questa assenza di un vero progetto, unito alla resistenza passiva dei docenti, che nella pratica odiano il “pedagogichese” in stile TFA e sono invece molto attaccati alle discipline, rendono più difficile costruire quella scuola stile anglosassone descritta da Fischer nel suo realismo capitalista e agognata dei fan della scuola delle competenze. Così, per una serie di fattori, tra cui principalmente il mercimonio dei titoli, il TFA tende a scomparire. Lo si diceva ogni anno. Che stavolta sia vero, proprio come è successo per le vecchie SSIS?.Questo governo ha varato una serie di provvedimenti, molto gravi, che mirano quasi ad umiliare il docente specializzato, che ne esce cornuto e mazziato. Brevemente: Uno. La possibilità per le famiglie di confermare il docente di sostegno, anche non specializzato. Ancora una volta è curioso che a legalizzare un sistema di clientela sia un ministero autodefinitosi del merito. Oltre alle critiche più ovvie sul familismo ad esserne svalutata è la stessa figura del docente di sostegno, che, da studente della classe, e quindi di tutti gli alunni, torna ad essere il docente personale, l’angelo custode del disabile. Uno di famiglia insomma. Due. L’apertura di nuovi corsi da 30 cfu organizzati da Indire per chi ha maturato tre annualità e per gli abilitati con titolo estero. Anche questa norma è fortemente discriminatoria. Perché apre a percorsi facilitati, magari on line, che nulla hanno a che spartire con il calvario del TFA. Qui si apre un capitolo enorme e dolente, quello della valutazione dei docenti, che non vorrei che venisse letta come guerra tra poveri, o come mero risentimento del tipo “noi abbiamo sofferto perché voi no?”. Tuttavia, il principio della anzianità di servizio non può rappresentare criterio di preferenza, che di fatto esclude chi è più giovane e semplicemente ha la sfortuna di affacciarsi sulla scuola in un momento in cui il mercato del lavoro è più saturo. Meno che mai è giusto dare preferenza a chi si è comprato un titolo all’estero. Certo, la colpa è sempre del governo che fa reggere la scuola da una marea di precari, specialmente sul sostegno, e finché sarà così è legittimo rivendicare l’ingresso in ruolo per tutti. Ma che le regole siano uguali per tutti. Stabilire regole di accesso diverse per posti uguali non rispecchia nessun principio di giustizia. Terzo. Lo stesso è accaduto per i nuovi corsi abilitanti dei 60 cfu sulle varie classi di concorso, che invece a questo giro discriminano i triennalisti (che affrontano il numero chiuso) e invece avvantaggiano gli specializzati sul sostegno. Anche in questo caso chi finirà il corso (erogato anche e soprattutto da enti privati) sarà nella stessa posizione di chi ha superato un concorso ordinario. Il fatto è che comprarsi l’abilitazione può valere oltre 24 punti nella prima fascia, e quindi avvicinare il precario verso l’agognato ruolo, a discapito di chi però non ha tempo o soldi per prendersi, oltre al TFA, l’ennesima abilitazione. Inomma, una vera giungla quella del precariato e del mercato dei crediti inaugurato con gli ormai lontani 24 cfu. La tendenza spudorata di questo governo è quella di privatizzare completamente la formazione docente. Allora, dopo la scompara delle SSIS forse dovremo dire addio anche al TFA, che, per quanto assurdo come ho tentato di mostrare, rimane pur sempre un corso interno all’università pubblica con minimi standard di decenza. Come è normale questi provvedimenti hanno generato molto malcontento tra i docenti specializzati, che vedono frustrate la loro professionalità e le loro fatiche. Si deve però stare attenti ad evitare guerre tra poveri e rispedire sempre le responsabilità in alto. È chiaro che in assenza di percorsi collettivi di fuoriuscita dalla precarietà ognuno segue la sua strada facendo quello che può, giocando alle sporche regole del sistema, , divisi in mille categorie di precario diversi (il triennalista, il neo laureato, l’abilitato, il 24 cfuato, il 60, ecc, il concorso PNNR e quello 2020) che sgomitiamo per accaparrarci le briciole dei pochi posti messi a bando dal sistema. Perché il problema è tutto lì, i posti di lavoro ci sarebbero, la mancanza di personale specializzato è vero solo in parte. A mancare sono i posti di diritto, i posti di ruolo, ed è su quello che bisognerebbe lottare. Non assumere è una scelta politica: scientemente ci sono cattedre lasciate in balia delle supplenze annuali. La lotta per ripristinare le assunzioni da prima fascia sostegno (il famoso ex articolo 59) ha dimostrato che basta poco, per i docenti e in particolare per quelli di sostegno, per ottenere una buona visibilità e anche qualche piccolo risultato politico. Sarebbe l’ora di riiniziare ad alzare la voce, per noi e per i nostri studenti.

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