Classi separate, classi di transizione, classi differenziali, classi di accoglienza, classi ghetto, classi di accompagnamento.. Certo, ognuna delle definizioni che abbiamo letto in queste ultime settimane in relazione alla proposta di riforma del ministro Valditara rivela molto su chi si esprime e del suo modo di leggere il mondo, ma ciò che a noi in quanto docenti preme non è dare una mano di vernice più o meno buona su un edificio pericolante. Ciò che ci interessa è valutare le fondamenta dell’edificio, vedere gli ingrandimenti e le riparazioni degli ultimi anni che effetti hanno prodotto e mettersi di buona lena ad aggiustare tutto quello che non va e poi, chissà, vedere anche il nuovo edificio che effetto produce sull’ambiente che lo circonda e da cui è attraversato….
Il costante aumento degli studenti con backgruond migratorio nelle nostre aule è oggi forse la principale sfida della scuola pubblica italiana. Sfida appunto, non problema. I problemi nascono quando ci approcciamo ad un compito con strumenti sbagliati o spuntati. Ciò che il ministro sembra suggerire, per quanto ancora piuttosto vagamente, è ciò che nelle nostre aule insegniamo ogni giorno a NON fare: essere superficiali, ignorare i reali nessi di causa-effetto, non interessarsi ai problemi di chi ci sta a fianco e ai problemi della società tutta e, soprattutto, non chiudere nella stanza accanto, lontano dagli occhi e dal cuore, ciò che ci mette in difficoltà, ciò che ci obbliga a ripensarci come persone e, in questo caso, come docenti. Non faremo lo stesso errore del ministro, non crediamo di avere una bacchetta magica che possa indirizzare le cose nella giusta direzione, ma abbiamo però convinzioni che abbiamo maturato nelle nostre aule.
Innanzitutto parlare di studenti stranieri e non di studenti non italofoni è un approccio razzista e come tale va denunciato. Sappiamo però anche che il semplice inserire gli studenti che non parlano italiano in classi di coetanei semplicemente non funziona. L’ambiente è sì fondamentale per superare le barriere linguistiche, ma abbiamo toccato con mano che esiste un livello linguistico “soglia” per innescare il processo virtuoso sperato.
Molti sono, sulla carta, gli strumenti che son stati tentati per far raggiungere ai nostri studenti tale livello linguistico. Dal loro fallimento prende avvio la proposta del ministro. Ma davvero sono falliti? O sono stati fatti fallire? E sono stati fatti fallire per incompetenza o perché, e qui arriviamo al grande non detto, in fondo avere sul territorio persone destinate sin dalla più tenera età a svolgere i lavori più umili in condizioni di semi-sfruttamento fa comodo alle nostre aziende e al nostro Pil in generale? Insegnare L2 non vuol dire parlare più piano: abbiamo bisogno di professionisti. E li abbiamo, ma non ce ne serviamo. E’ stata creata una classe di concorso apposita, L’A23, e poi non son state attivate le cattedre. Non vengono fatti gli screening in ingresso. I momenti, indiscutibilmente fondamentali, in cui gli studenti di classi diverse possono imparare l’italiano, vengono ritagliati senza nessuna attenzione all’orario, escludendoli da materie che potrebbero rappresentare un aiuto proprio per l’apprendimento della lingua o per aumentare loro l’autostima (educazione fisica, laboratori, ecc.).
Ogni scuola rappresenta un mondo a sé e ognuno sa che cosa si potrebbe fare o si potrebbe fare meglio nella propria. Ciò che manca è troppo spesso la volontà, ma questa è una sfida che non può più essere rimandata, non possiamo non prenderci cura dell’edificio pericolante, gli effetti non potrebbero che essere disastrosi.