“NON TUTTI I DOCENTI”
“Le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere (…) di sicuro è vicina qualche rivelazione” W.B.Yeats
Il 26 marzo il liceo di Porta Romana ha aperto le proprie porte a una scommessa feconda: un’assemblea mista in cui docenti e studenti potessero ristabilire un terreno di confronto franco e progettante. Un terreno in cui cercare di identificarsi, riconoscersi in modo nuovo, al di là della gratificazione del proprio essere o meno docenti “non convenzionali”. Il volantino di lancio ruotava intorno a due proposizioni fondamentali: “discutiamo insieme della scuola” e “quale scuola per i nostri bisogni?”. “I nostri bisogni”: un collega ha fatto giustamente notare la curiosa sovrapposizione tra angustie e mancanze echeggiate tanto nei bisogni adulti quanto giovanili. Punti sul tempo di studio e di relazione, con la classe e
con i colleghi; sul tempo formativo, ostacolato e modellato sulla scuola come “fabbrica di persone”, come affermato durante un intervento.
Folta la presenza della popolazione studentesca, a cui faceva da “controcanto” un ben più
piccolo ma motivato gruppo adulto che, a differenza degli studenti, raramente si incontra al
di fuori delle proprie organizzazioni sindacali, sedi lavorative o ambiziose giornate di
formazione ordite da qualche casa editrice. L’incontro ha dovuto molto presto fronteggiare
una tensione latente: la franchezza dell’Altro, de* studenti, raramente si è manifestata in
modo così continuativo e sfaccettato. Chi ha mai toccato con mano la balbuzie che ci
coglie quando il contatto con la classe si fa più prolungato della singola confidenza
sussurrata o dell’apertura fugace che riusciamo a scavare? Una singolare impressione di
familiarità sovvertita. Volti con cui sicuramente conviviamo, ma nella giusta distanza che
pertiene al nostro ruolo non è sempre trasparente cosa riguardi concretamente la
“relazione”
Una tensione è spesso preambolo di passi goffi, di disponibilità generosa ma fragile al
contempo; pronta a richiudersi velocemente negli angoli poco esaminati del rapporto che
viene instaurato a scuola. Letteralmente il rischio di rimettere e rimettersi al proprio posto;
di negare, nel caso del corpo docenti, il proprio potere – e già un termine del genere
desterà scandalo. Un compito il nostro che a volte si intreccia strettamente con la
necessità degli strumenti che adoperiamo nella quotidianità. Se questi vengono contestati,
non è raro trovarci a indicare le responsabilità della mancata intesa unicamente nel
giovane interlocutore, una versione scolastica del ritornello “lo Stato siamo noi”, in base al
quale il mancato funzionamento della “macchina sociale” (o educativa) è da attribuire alla
mancata collaborazione altrui. Non richiederebbe una disamina maggiore lo sfondo, il
contesto in cui ci muoviamo, anziché percepirci come sorgenti neutre di stimoli?
“Attenzione a non riproporre una versione del “not all men” declinato in chiave scolastica –
“non tutti i docenti sono come li descrivono questi ragazzi” ha fatto notare uno studente durante il primo giro di interventi, quasi in reazione a una tendenza eccessivamente cerebrale (o sottilmente autoelogiativa) degli adulti presenti. Sì, esser lì in cerchio è sicuramente stato un gesto importante, ma certe “scintille” hanno indicato quanto fosse per tutti/e una prima volta.
Sì, attriti possibili che devono far parte di un voler andare al di là; andare al di là,
riprendendo la suggestione offerta dal giovane interlocutore, dell’autorappresentazione
della compiutezza morale e intellettuale del/la docente, rimettendolo/a piuttosto entro la
cornice della ricerca e dell’autoriflessione che non sia spendibile solamente entro la
retorica ministeriale. Che i docenti ripartano dai docenti; fosse anche solo nel semplice
scambio di informazioni. Elemento che si dà quasi subito: coerentemente con uno dei temi
della chiamata – “autoritarismo” – emerge tra i colleghi l’impennata delle pulsioni dirigiste
delle presidenze, testimoniata dai recenti fatti che hanno coinvolto il Liceo Dante-Alberti e
l’Istituto alberghiero Buontalenti.
Andare al di là di un gioco in cui la classe è un coacervo di ignoranza, indisciplina e noia,
con cui spesso una classe accoglie eventuali buone intenzioni adulte. Già, noia: chiunque
abbia messo piede in un istituto tecnico professionale sa quanto questa accompagni
l’impalpabile (o crassa, in certi casi) inospitalità di certi ambienti scolastici. Sa quanto certe
reazioni non si radichino semplicemente in un’insufficienza metodologica; né che tali
ambienti sono semplicemente generosi collettori di smania giovanile.
Viene da pensare a un passo di Valerie Solanas: basta sostituire “donne” con
“studenti”/”giovani”.
“Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. (…) non esiste
aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne”
Ancora: andare al di là, come efficacemente delineato da un collega, dellu studente come
soggetto definito esclusivamente da bisogni e domande minori, accenno imperfetto di
adulto – quest’ultima grande conquista pedagogica da Claparede in poi. Il grande abisso
che si presenta a chi svolge un ruolo educante. La grande questione – che spesso lascia
gli stessi educatori meditabondi – dei metodi universali e della loro validità per ottenere
uomini e donne con tutti i crismi – che forse serpeggiano ancora sotto l’attitudine alla
personalizzazione della didattica. Certo, fuori c’è un mondo con la sua livella, le sue
aspettative diffuse: è ovvio che non vogliamo che i ragazzi siano impreparati, disarmati. E’
ovvio che un domani saranno cittadini e cittadine e che il nostro ruolo sta nel garantire tale
“iniziazione”, ma l’abbandono scolastico e l’astensionismo elettorale suggeriscono
qualcosa circa ciò che avviene “in entrata” e “in uscita”. Gli studenti si trovano a fidarsi di
un’idea di mondo che delineiamo appena nelle nostre lezioni; si trovano a ricevere
qualcosa che spesso si dissolve nelle loro mani.
E proprio gli studenti hanno portato due contributi efficacissimi.
Il primo è servito a spazzare via le rigidità che permeano una grande regola non scritta: “a
scuola non si fa politica”. “Io frequento il liceo delle Scienze Umane e praticamente ogni
libro che studiamo parla costantemente di politica, ché la scuola è politica in ogni suo
momento, dato che riguarda la partecipazione attiva” ha giustamente puntualizzato una studentessa. C’è chi ignora la chiarezza di questo punto, ma al contempo non esita a
vigilare su come venga trattata l’attuale tragedia palestinese; né mostra titubanza nel
concedere l’uso dei locali scolastici per la presentazione dei candidati delle future elezioni
amministrative, immaginando chissà quale dialogo o parodia di partecipazione civica. Il
secondo è stato metodologico, atto tanto a dare punti di discussione quanto
un’esposizione protetta dei partecipanti, adulti o meno che fossero: un semplice cartellone
su cui attaccare post-it che sintetizzassero cosa non va nelle scuole. Dietro tutto questo
c’è stato il gesto di cura proprio delle nuove generazioni: l’attenzione al coinvolgimento
collettivo, specie di chi ha fatto le spese a vari livelli dei “silenzi” scolastici, optando a sua
volta per un silenzio insalubre. “Ritmi scolastici”, “paternalismo”, “disinteresse per
l’attualità”, “palese disinformazione”, “registro elettronico”, “minacce agli occupanti da parte
di professori e dirigenti”, “scarsa continuità didattica”, “non mi piace mettere i voti”,
“educazione sessuo-affettiva”, “burocratizzazione”: questi alcuni degli elementi che
interrogano direttamente la struttura scolastica; che indicano una stanchezza trasversale
alle generazioni rispetto ai ruoli ricoperti;
Quel meccanismo per il quale non riusciamo a costruire un dialogo neanche volendo.
Citando Asor Rosa: ”A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le
giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro
sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli (…) sia scontato ed inutile (…) aspiriamo
ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per
guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura”.
Non sfugga a chi legge un punto forse non sufficientemente enfatizzato: qualunque idea di
scuola deve prendere certamente in esame i rapporti che si instaurano tra docenti e
discenti, ma ciò non significa ignorare gerarchie locali, regionali e ministeriali. Pessime
riforme hanno sempre accelerato e solleticato istinti e vuoti di ogni genere; catene di
malessere trasversale alle generazioni coinvolte, catturato in quei post it che hanno
scandito il ritmo dell’assemblea. In secondo luogo, non si è trattato unicamente di un
tribunale in cui degli adulti dolenti hanno accettato di rispondere dei propri privilegi. Tutti
abbiamo appreso da altri/e. Tutti abbiamo fatto, in tal senso, esperienza di uno squilibrio di
forze, ma come è stato condotto tale rapporto? Chi ha fornito ragioni e chi ha opposto
silenzi, se non denigrazione? Chi ha costruito fiducia? Chi ha saputo rispondere alla
temuta domanda: ”ma a me cosa serve imparare questa roba?”.L’assemblea ha tenuto duro fino alle 18.30, orario previsto per il suo termine. Due impegni
presi prima dello scioglimento: condivisione dei saperi e questionario interno ai docenti.
Su proposta degli/delle studenti, per quanto riguarda il primo punto, è stato rivolto l’invito
alla lettura di “Insegnare comunità” di bell hooks (Gloria Watkins); nel secondo caso si
tratta di un set di domande – disponibile sul nostro blog – che tocca proprio la carne della
quotidianità del docente e su cui occorre interrogarsi: la funzionalità di valutazioni,
sospensioni, bocciature e programmi. Strumenti che spesso hanno vita propria e che
troviamo pronti all’uso, ma di cui dimentichiamo spesso di investigarne l’influenza su
pratiche e comportamenti. Di cui spesso troviamo più una giustificazione “ex post” che “ex
ante”.