Mercoledì 27 febbraio varie scuole siciliane hanno aderito a un flash mob per la pace. Sulle pagine social delle suddette scuole si vedono studenti e studentesse fra gli 8 e i 10 anni, con cartelli o striscioni contenenti il medesimo messaggio: “diamo voce alla pace”. Quello che non si vede sono le circolari delle dirigenze che invitano “i docenti ad affrontare con maggiore incisività il tema della pace, evitando qualsivoglia allusione agli avvenimenti accaduti a Firenze e a Pisa nei giorni scorsi”.
Intervistata, una dirigente si giustifica sostenendo che la nota aveva l’intento di non urtare i figli dei poliziotti. Quindi per non urtare bambine e bambini che avrebbero potuto confrontarsi con il fatto che alcuni colleghi dei genitori avevano gestito a suon di botte il diritto di studentesse e studenti ad avere un’opinione, le dirigenze in questione hanno risolto togliendo agli insegnanti quello stesso diritto. Che poi cosa ci dovrebbe di offensivo nello spiegare e commentare dei fatti non si capisce.
D’altra parte a che serve chiedere a bambine e bambini di scrivere uno striscione e sfilare silenziosamente fuori da scuola, se prima non vi è stato un confronto, un approfondimento, una discussione su cosa sia la pace e cosa si intenda con questa parola? Questa modalità rientra a piano titolo in una forma mentis che ormai da anni affligge i gradi più bassi della scuola italiana e cioè l’idea pre-novecentesca che bambine e bambini, alla fine, siano un po’ stupidi. Adulti incompleti, incapaci di comprendere concetti complessi, a cui fa da complemento il ruolo dell’educatore, non più figura in grado di formulare certi concetti a misura della classe ma, semplicemente, incaricato di sorvolarli o banalizzarli talmente tanto da renderli ridicoli. Ciò risulta palese dalle linee guida e dai libri di testo, ripetitivi allo sfinimento e superficiali fino alla noia, tanto che chi attraversa le aule spesso si sente chiedere dalle sue studentesse e da suoi studenti come mai viene riproposto lo stesso argomento svolto l’anno precedente; interrogativo introdotto dalla temibile frase: “maestra ma questa cosa l’abbiamo già fatta” e successivo sbuffo.
C’è inoltre un secondo dramma che affligge infanzia e primaria: la scuola dell’apparire. Niente ha più valore del cartellone colorato da mettere in bella mostra sui social e poco importa se non si è riusciti o, come in questo caso, non si è voluto costruire un discorso di senso con la classe, poiché l’unica cosa che conta è la bella immagine della scuola. E allora via di giornata dei calzini spaiati, anche se lo studente H deve rinunciare ad alcune ore perché non ha abbastanza copertura fra sostegno ed educativa; vai con il cartellone dell’inclusione, ma senza insegnanti L2 per bambine e bambini non italofoni. Recitiamo insieme la poesia sulle neurodivergenze, ma non assumiamo docenti di potenziamento; oppure usiamoli per coprire ogni giorno una supplenza diversa.
Una scuola primaria svuotata di contenuti e infiocchettata; escludente ma con la porporina dell’accoglienza. E’ davvero questo ciò che i bambini e le bambine meritano? Sventolare un cartellone, con lettere tanto colorate quanto vuote di significato, che cultura della pace può favorire se non quella della pace apparente?