Ai ragazzi agitati che oggi come ieri vogliono tutto

Breve resoconto dei fatti
Sabato 11 febbraio – notte. Un gruppo di studenti e giovani entra nella succursale di via dei Bruni dell’istituto alberghiero Buontalenti con l’intenzione di occupare la scuola. Dopo poco tempo scatta l’allarme e una parte del gruppo se ne va temendo l’arrivo della polizia. Gli altri rimangono (l’allarme continuerà a suonare tutta la notte con grande disappunto dei vicini e nessun intervento delle forze dell’ordine). I ragazzi rimasti organizzano quella che doveva essere un’occupazione della scuola: barricano le entrate e prendono possesso della scuola.
Nel corso della serata verrà “saccheggiata” la riserva degli alcolici della scuola e messa sotto sopra la cucina. Altre parti della scuola subiranno alcuni danneggiamenti di lieve entità.
Domenica 12 febbraio – mattina. I ragazzi sono rimasti in pochi, provano a chiamare altri studenti della scuola per andare a sostenere l’occupazione ma la cosa non ha successo. Provano a scrivere un comunicato e mettono all’entrata della scuola una lavagna con su scritto “Buontalenti ocupato”. L’allarme intanto suona ancora. Dopo che alcuni ragazzi sono saliti sul tetto, i vicini chiamano la dirigente che arriva velocemente alla scuola insieme al vicepreside. All’arrivo del vicepreside i ragazzi scappano, ma uno viene riconosciuto.
Lunedì 13 febbraio – mattina. La scuola viene ripulita. Studenti e docenti si aggirano per i corridoi aspettando di capire qualcosa. Intanto arrivano digos e scientifica. Due ragazzi sono convocati in presidenza con i genitori e interrogati alla presenza della polizia, dei vicepresidi e della dirigente. Spiegheranno la loro versione dei fatti. Uno dei due sarà sicuramente denunciato, l’altro non si sa. La dirigente chiede l’espulsione di quello più coinvolto.


Ragazzi agitati
Se si leggono i titoli dei giornali non si può che restare sgomenti. Vandali, laboratori danneggiati, computer rubati; sembra che un ciclone abbia travolto la sede delle Cure del Buontalenti (istituto professionale alberghiero), senza un apparente motivo.
Cosa spinge qualcuno di sabato notte ad entrare in una scuola e accanirsi contro gli arredi, invece di festeggiare l’ultimo sabato di Carnevale come tutti?
Poi inizia a circolare una voce: sono stati degli studenti della scuola. Si sanno i nomi di due studenti coinvolti (gli unici identificati): 15 anni.
Fra i docenti circolano i soliti commenti: è colpa delle famiglie, è colpa della scuola troppo buonista, questi sono dei delinquenti, ve l’avevo detto che lo dovevamo sospendere già lo scorso anno.
La scuola ha un suo linguaggio tecnico, burocratico, criptico, impossibile da capire per chi non la frequenta, con cui scandaglia, misura e incanala la quotidianità di migliaia di ragazzi. È importante la scuola, per un momento della tua vita è il centro del mondo, poi sembra rimanere il centro del mondo solo per chi ci lavora; gli altri, quelli che ci sono stati come studenti, hanno nuove priorità, una volta che studenti non sono più.
E poi ci sono quelli che la scuola l’attraversano come si attraversano i sottopassaggi della stazione quando devi prendere un treno e sei in ritardo: di corsa, perdendosi, con la paura di rimanere a terra mentre il treno parte. Sono loro, quelli che chiamiamo cattivi studenti, quelli il cui registro è pieno di note disciplinari perché stanno al telefono, si alzano senza permesso, fanno confusione durante la lezione e nessuno li ha mai visti rientrare in classe puntuali dopo la ricreazione. Sono loro: figli di famiglie proletarie, a volte nemmeno italiane, ex bambini problematici che oggi sono quei ragazzi agitati che la scuola non sa gestire e fa di tutto per gettare fuori da sé, come un corpo estraneo.
E lo sono un corpo estraneo: non parlano il linguaggio dei manuali che ci ostiniamo a comprare, non riusciamo a farli appassionare alla storia, alla letteratura o alla matematica, ci guardano come se venissimo da un altro pianeta quando parliamo di disequazioni o di leggere un romanzo. La nostra, ovvia, conclusione solitamente è: a questi della scuola non importa niente. Ci vengono perché costretti, ci vengono per spacciare, ci vengono perché non sanno dove altro andare. E in effetti dove altro dovrebbero andare? Siamo davvero convinti che, anche per loro, in fondo la scuola non sia un orizzonte del possibile dove realizzare se stessi? Siamo davvero sicuri che questi ragazzi odino la scuola tanto da volerla abbandonare, oppure anche loro vedono lì una possibilità di crescita di cui non vogliono privarsi? E se l’unico posto dove vogliono stare è la scuola, perché continuano ad abbandonarla o ad esserne espulsi?
Ma soprattutto: cosa succede se questi ragazzi agitati, questi moderni Franti, decidono di occupare una scuola?
Quello che è successo fra sabato 11 febbraio e domenica 12 al Buontalenti è stato, in effetti, un tentativo di occupazione, portato avanti proprio da questa soggettività.
Un’occupazione arruffata, strana, piena di contraddizioni e problematicità, ma mossa da una voglia di riappropriazione dello spazio scolastico, da una voglia di contare e mettere in discussione la scuola che esiste guardando verso una scuola possibile. Possiamo sprecare fiumi e fiumi di inchiostro per analizzare ogni sbavatura, possiamo muovere ogni tipo di critica al fatto che sono stati fatti gesti insensati e sbagliati (cucine imbrattate e danneggiamenti vari) e sono tutte critiche che chi scrive condivide, ma rimane il fatto che per una volta quegli studenti hanno cercato di trovare una voce e prendersi uno spazio pubblico da cui sono costantemente esclusi. E se non lo hanno fatto scrivendo un comunicato pieno di parole d’ordine a noi comprensibili o cercando un dialogo con la dirigente, non ci può stupire, perché i nostri schemi (per noi rassicuranti) non li conoscono proprio. E d’altra parte, perché non valorizzare invece il conflitto (quello sì innegabile) che per una volta sono riusciti ad esprimere?
Perché gli stessi docenti che magari applaudono alla notizia di un’occupazione di un liceo (che parla un linguaggio a noi più affine), si indignano ed evocano ogni provvedimento disciplinare possibile quando ad occupare sono dei ragazzi che scrivono “Buontalenti ocupato” con una sola c?


Scuola di polizia
A volte viene da chiedersi se dentro le scuole abbiano aperto delle succursali delle questure. Ma quando è successo? Quand’è che la scuola ha smesso di cercare di risolvere i problemi con strumenti formativi e processi educativi e ha deciso di gestire ogni problematica componendo il 113 sui tasti del telefono? In altre parole: che scuola è quella che risolve i suoi problemi delegandoli alla polizia?
Se si guardano lucidamente i reati commessi in questa vicenda si discostano di poco da quelli in teoria commessi durante l’occupazione di ogni scuola: occupazione di edificio pubblico, interruzione di pubblico servizio, effrazione, qualche danneggiamento (alla fine le ultime stime parlano di danni per 1500 euro, cifra di fatto identica se non minore a quella che stimano i presidi delle altre scuole ad esempio del Machiavelli o dell’Alberti), ma quello che spesso succede è che i dirigenti non denunciano gli studenti per tali reati: un po’ perché temono la reazione del corpo studentesco dei licei, un po’ perché temono quella dei genitori, un po’ perché cercano una mediazione che non esasperi gli animi. In questo caso, invece, la dirigente (data la poca solidarietà che si è data nella scuola nei confronti degli occupanti) non si è fatta nessun problema a denunciare un ragazzo di 15 anni (l’unico ad oggi identificato) al grido di: “Io a te non ho più niente da dire, da oggi sono altri (la polizia) quelli con cui dovrai parlare”.
In una scuola del genere i docenti finiscono per essere o giudici o secondini, in entrambi i casi, qualcosa che non dovrebbero essere.
Giudici che si trovano a decidere se espellere o no uno studente dalla scuola e secondini che amministrano i corpi docili di tutti quelli a cui è servito da lezione.
Ma se la scuola vuole formare al pensiero critico, non sarebbe suo compito dare degli strumenti che tale pensiero critico lo facciano esprimere senza sfociare in azioni nichiliste o distruttive?
La scelta che abbiamo davanti non è semplice come sembra. Spesso sentiamo di navigare a vista senza strumenti e senza bussola: da una parte si dice che oggi la scuola è lassista, permissiva e buonista ed è per questo che accadono certe cose. Poi se guardiamo i dati vediamo che le bocciature non sono mai diminuite (anzi), che il voto in condotta è divenuto sempre più importante riforma dopo riforma e che ancora oggi la nostra scuola è ancorata a un vecchio modello di lezione che valorizza più la nozione che la comprensione. Dall’altra si parla di competenze, di modi nuovi di fare lezione, di inclusività, ma poi dietro la cortina di fumo un nuovo modello di scuola facciamo fatica a metterlo a fuoco.
Un po’ spersi e con pochi strumenti, i docenti si affidano spesso agli unici strumenti che sembrano funzionare: l’autoritarismo e la disciplina.
Ma siamo davvero sicuri che si possa apprendere e diventare degli adulti decenti nella scuola della paura? Se oggi sappiamo che educare i bambini con la paura non li renderà esseri umani migliori ma solo più insicuri, perché non dovrebbe valere lo stesso per i nostri studenti adolescenti?


Vogliamo tutto
C’era una volta un operaio (no, questa non è una storia operaia) giovane e pieno di vita che di politica non sapeva niente. Era arrivato dal sud pieno di speranza e la sua massima aspirazione era comprarsi i jeans di moda che non si poteva permettere. Questo operaio (che poi sono tanti operai), che non parlava la lingua dei sindacati, che non capiva i comizi, un linguaggio lo capiva bene, quel linguaggio era il linguaggio del conflitto. Il resto è la storia delle lotte che hanno cambiato questo paese e ha aperto un orizzonte di dignità per tutti.
Se è vero che l’apprendimento avviene per scoperte ed errori (detto banalmente: sbagliando si impara), spero che la prossima volta il Buontalenti sia occupato senza scappare più.


“Newt” Scamander

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